Anche se sembra impossibile che un’abitazione a cinque minuti di cammino dal centro di Bologna possa essere circondata da un vero e proprio parco, sarebbe riduttivo definire quello che sta intorno a Villa Benni semplicemente un giardino. Due ettari e mezzo di verde abbracciano la costruzione, con piante tipiche del sottobosco, felci, ciclamini primaverili e invernali e, in un angolo, un curioso camino rasoterra, che è il primo indizio dell’esistenza del rifugio antiaereo costruito dai Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, i cui cunicoli si estendono 15 metri sotto il livello del suolo. Tuie secolari, tigli, Calicantus estivi – quelli che profumano d’aceto e mela – faggi, lecci, ippocampi, cedri del libano, un sorbo, un fico, un albero di rusticani e un’infinita varietà di altre piante costeggiano, scavalcano e si allontanano dal viale che corre – o sarebbe meglio dire, cammina – intorno alla villa, toccando, come ideali tappe di un percorso a metà strada tra la botanica e la storia, le testimonianze di un’epoca bellica che per un certo lasso di tempo è riuscita a colonizzare anche questo angolo sublime alle porte della città delle Due Torri. Una garitta posta all’entrata secondaria del parco evoca ingressi di rumorose jeep militari e auto di rappresentanza a quella che era la sede prescelta per ospitare il comando nazista a Bologna, un’imponente depressione del terreno circondata da mura perimetrali dello spessore di due metri e mezzo – di fronte al pozzo artesiano utilizzato per l’irrigazione – è il souvenir del progetto di una stazione ricetrasmittente, là dove sarebbe più naturale immaginare un giardino pensile o una piscina all’aperto. A parlare della guerra è anche ciò che manca: il monumentale, eppure all’apparenza aggraziato, cancello che si affaccia su Via Saragozza è solo parte di una recinzione in ferro che si estendeva alla sua destra e alla sua sinistra, in direzione della Porta e del Meloncello. Ma il ferro, in tempo di cannoni e bombardamenti, è materia preziosa e solo il biglietto da visita della Villa – quel cancello, per l’appunto, che reca le iniziali di Alfredo Benni – è stato risparmiato dal rastrellamento di metalli utili all’artiglieria. Con le spalle alla strada, gli occhi si tuffano nella fontana che ha preso il posto della casa che, nel 1924, sorgeva proprio ai piedi di quella piccola altura che avrebbe di lì a poco visto posare la prima pietra della Villa. Sulla destra, il Viale delle Querce e dei Ginkgo Biloba, che si perde per alcuni metri, lasciando la scena ad un’Acacia – cresciuta spontaneamente – e all’orto, proprio davanti al punto in cui, un tempo, il casino di campagna ospitava i contadini e le loro mucche, che offrivano il latte che finiva nelle tazze della famiglia Benni e dei Mazzini. A chiudere l’incredibilmente ricco inventario del parco, come a introdurre gli stupefacenti interni, una colonia di lampioni in ghisa, con copertura della lampadina a forma di pigna ribaltata, disegnati – come del resto ogni cosa – da Silvio Gordini, amico intimo di Alfredo Benni.
Il pollice verde di Villa Benni: un percorso botanico segreto